MILANO - Nel gergo anglofilo della pubblicistica economica un trilione sta per mille miliardi. Il valore in dollari del prodotto interno lordo degli Stati Uniti è stato pari a 12,4 trilioni di dollari nel 2005. Il valore in dollari raggiunto a metà del 2006 dall’indebitamento delle famiglie americane si è attestato a 12,4 trilioni di dollari. Il numero è stato recentemente aggiornato dalla Federal Reserve nella pubblicazione periodica sul flusso di fondi tra i settori istituzionali. Tenendo conto della sfasatura di un semestre tra i due dati, ad ogni dollaro di prodotto degli Stati Uniti corrisponde oggi poco meno di un dollaro di debito delle famiglie americane. Non è poco.
Guardando all’Italia, i dati ci dicono che il PIL del 2005 è stato pari 1,4 trilioni di euro mentre l’indebitamento delle famiglie italiane alla fine dello scorso anno si è attestato intorno agli 0,4 trilioni di euro. Per un euro di prodotto lordo da noi ci sono meno di 30 centesimi di debito familiare. Meno di un terzo rispetto a quanto accade in America. La peculiarità delle famiglie USA vale anche nel confronto rispetto a paesi del Vecchio Continente finanziariamente più sofisticati del nostro. In Francia, ad esempio, il rapporto tra debiti finanziari delle famiglie e prodotto interno lordo si è attestato nel 2004 intorno al 40%. In Germania è pari al 70%. In Spagna è del 63%. Nella media dell’area dell’euro ci si colloca intorno al 55%, ben al di sotto del grado di indebitamento raggiunto ora negli USA.
Ciò che colpisce del debito delle famiglie americane, oltre al livello, è la dinamica. Alla metà degli anni Novanta il rapporto tra i debiti finanziari delle cosiddette “household” e il PIL era pari al 66% negli USA. Saliva al 72% nel 2000. Oggi ci avviciniamo al 100%. E dall’inizio del nuovo millennio la progressione annuale di crescita dei debiti delle famiglie americane non è mai scesa al di sotto del 9% con punte reiterate dell’ordine del 12%. Nell’ultimo quinquennio il debito degli americani è salito a ritmi esattamente analoghi a quelli della crescita del prodotto non negli USA, ma in Cina. E’ questa l’impressione che coglie chi legge i numeri pubblicati nella prima delle 85 tabelle riportate nel bel documento della Fed sul flusso dei fondi. Andando avanti nella pubblicazione, si scopre che il grosso del debito delle famiglie americane è fatto di mutui sulla casa. Parliamo di 9,3 trilioni di dollari. Con un cambio di 1,25 dollari per euro, si tratta di un ordine di grandezza non molto inferiore al valore del PIL dell’intera area euro nel 2005.
Per parecchi anni la crescita dell’economia americana ha tratto vantaggio da un poker di elementi: la continua ascesa dei prezzi e delle quantità scambiate sul mercato degli immobili, il vivace andamento degli investimenti in costruzioni, i bassi tassi di interesse, la capacità tutta americana di estrarre liquidità spendibile dalla rivalutazione delle case attraverso un aumento dell’indebitamento familiare. Tra la fine del 2000 e la metà del 2006 la ricchezza immobiliare delle famiglie americane è quasi raddoppiata passando da 11,4 trilioni a 20,3 trilioni di dollari. Negli stessi anni un aumento speculare è stato segnato dalla consistenza dei mutui residenziali in capo alle “household” che in cinque anni e mezzo è pressocché duplicata rispetto ai 4,8 trilioni di dollari del 2000. La Fed ha stimato che una parte maggioritaria degli aumenti dei mutui degli anni recenti sia legata a operazioni di rifinanziamento rese possibili dalla concomitanza tra i bassi tassi di interesse e il costante apprezzamento delle quotazioni immobiliari. E tra il 2000 e la metà del 2006, oltre ai mutui, è aumentato anche il credito al consumo. L’ammontare in questione è salito del 33%, da 1,7 a 2,3 trilioni di dollari. Tradotto in euro, il credito al consumo di cui godono le famiglie americane equivale al PIL della Francia.
Negli USA, debiti e mattone hanno prodotto molta crescita, ma anche crescenti squilibri. La propensione al risparmio delle famiglie americane è divenuta negativa nel 2005: dal +2% sul reddito disponibile registrato ancora nel 2004 si è scesi al -0,4% dello scorso anno e al -0,7% stimato per quest’anno. Facendo i conti in dollari, nella prima metà del 2006 il deficit di risparmi rispetto al reddito disponibile degli americani, una volta proiettato sul base annua, supera i 60 miliardi rispetto ai 35 del 2005. L’eccedenza dei consumi sul reddito delle famiglie si riflette sul disavanzo di parte corrente degli USA che si avvia quest’anno ad avvicinare la soglia del 7 per cento sul PIL. I risparmi negativi degli americani premono sulla capacità produttiva del paese e creano spinte inflattive di origine interna che si leggono negli aumenti effettivi della cosiddetta “core inflation”. Dal lato del cambio, le pressioni verso un maggiore deprezzamento del dollaro sono state contenute dalla corrente di acquisti di titoli americani da parte degli investitori stranieri, soprattutto asiatici. Ma i dati sul flusso dei fondi aggiornati dalla Riserva federale segnalano che l’appetito del resto del mondo per la carta del tesoro americano sta diminuendo. Negli ultimi due anni il peso crescente del debito delle famiglie e la delicata situazione del mercato immobiliare hanno indotto la Fed ad usare prudenza nella manovra di rialzo dei tassi di interesse. Oggi le cose appaiono complicarsi ulteriormente. Si osservano i segni di rallentamento dei consumi privati che decelerano nel II trimestre ad un tasso annuo di incremento del 2,6%. Si tratta di movimenti attesi, considerando gli effetti ritardati di un biennio di aumenti dei tassi di “policy”. Ciò che attira maggiormente l’attenzione è la netta correzione di rotta del mercato immobiliare e dell’industria delle costruzioni. Il “Beige book” pubblicato dalla Fed lo scorso 12 ottobre parla di un diffuso raffreddamento del settore degli immobili residenziali. L’ultimo bollettino mensile della NAR, l’associazione degli agenti immobiliari americani, segnala ad agosto un calo dei prezzi registrati nelle vendite di case esistenti pari a poco meno del 2% su base annua. Con riferimento allo stesso periodo del 2005, il prezzo medio di una casa scende da 229mila a 225mila dollari. Il numero delle vendite diminuisce di circa il 13% rispetto ad un anno fa. Gli immobili non nuovi che risultano invenduti salgono di più di un milione di unità in un anno, dai 2,8 milioni di agosto 2005 ai 3,9 milioni di agosto 2006. Riguardo alle case nuove, sui conti del secondo trimestre del PIL americano il contributo degli investimenti in costruzioni residenziali è stato negativo ed ha sottratto quasi ¿ di punto ad una crescita annualizzata complessiva di 2,6 punti percentuali. Di fronte alla flessione dell’immobiliare qualcuno ha paventato il rischio che l’economia americana possa entrare in recessione. Si tratta di apprensioni eccessive. Secondo Philippe d’Arvisenet, global chief economist di BNP Paribas, è ragionevole prevedere un netto rallentamento, ma non ci sono fondati motivi per attendersi una recessione negli Stati Uniti. Nelle previsioni compiute dagli economisti del gruppo transalpino la crescita degli USA potrà calare dal 3,3% stimato per il 2006 all’1,6% previsto per il 2007. Il calo dipenderà, soprattutto, dalla correzione del mercato immobiliare e dagli effetti depressivi che saranno mediati dalla pesante situazione debitoria delle famiglie americane. Una condizione dei mercati finanziari internazionali certamente migliore di quella della fine degli anni Novanta e la possibilità di un ammorbidimento della politica monetaria della Fed contribuiranno a contenere la misura del rallentamento americano. La decelerazione dell’economia USA non sarà di aiuto per le economie europee. L’ultimo Rapporto di Previsione edito da Prometeia stima che lo “shock” di una riduzione del 20% del prezzo delle abitazioni degli USA potrebbe ribassare di circa mezzo punto percentuale la crescita europea nel giro di tre anni. Il rischio dovrà essere mutato in opportunità. All’Italia, che colloca sul mercato statunitense l’otto per cento delle proprie esportazioni, la prospettiva di un rallentamento americano servirà di ulteriore stimolo per mettere le cose in ordine in casa nostra. E diversificare le fonti interne ed esterne di una crescita più solida.
Fonte: Repubblica
martedì, ottobre 24, 2006
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